Psicologia dell’Emergenza e dell’Assistenza Umanitaria

Numero 30 2024

AVVERTENZA: qualora nei testi e nelle bibliografie internazionali riportate dalla nostra rivista sia indicata la possibilità per “operatori non psicologi” di svolgere attività psicologiche, si rammenta che in Italia tali attività (art. 1 e 3 della legge 18.02.1989 n. 56, “Ordinamento della Professione di Psicologo”) sono riservate agli iscritti nell’Albo dell’Ordine degli Psicologi. Si ricorda altresì che l’abusivismo professionale nel nostro Paese è condannato ai sensi dell’art. 348 del Codice Penale.

Direttore responsabile
Giuseppe Maiolo

Direttore
Donatella Galliano

Vicedirettore
Luigi Ranzato

Direzione scientifica
Paolo Castelletti, Daniele Luzzo, Fabio Muscionico, Raffaela Paladini

Comitato professionale
Presidenti delle Associazioni Regionali/Provinciali di Psicologi per i Popoli

Redazione
Gabriele Lo Iacono

Psicologia dell’emergenza e dell’assistenza umanitaria è edita da Psicologi per i Popoli Federazione | Via Galileo Galilei 18, Lavis (TN) | CF: 95015460223| Direttore: pxpfederazione.presid@gmail.com | Vicedirettore: ranzato.luigi@gmail.com

In questo numero
  1. “L’intervento dello psicologo, in sinergia con tutte le forze, per la persona colpita da incendio della propria dimora”. Le autrici, Veger E., Fournier B., Piazza S.,Pezzi E., psicologhe volontarie dell’- associazione Psicologi per i Popoli Trentino, in sinergia con il comandante dei Vigili del Fuoco Volontari di Ziano di Fiemme Tommasini C., presentano una accurata riflessione sull’intervento effettuato con un approfondimento sulle caratteristiche tecniche, fenomenologiche, culturali, emotive, storiche dell’emergenza incendio che impattano non solo sulle persone colpite ma anche sulla comunità e sui soccorritori.
  2. “Intervista a Claudia Filipetta (Psicologi per i Popoli): dopo paura, rabbia e tristezza, le persone attivano nuovi processi adattativi. Bene le reti sociali, mai restare soli”. Con il permesso di https://www.ravennanotizie.it/ pubblichiamo il testo di una intervista alla psicologa Claudia Filipetta di Psicologi per i Popoli EmiliaRomagna, che il giornale ha effettuato in occasione dell’alluvione che ha colpito l’Emilia Romagna il 16-17 maggio 2023. La collega riassume sinteticamente le modalità che guidano un intervento psicologico in emergenza secondo gli standards internazionali di “Inter Agency Standing Committee (IASC)” delle Nazioni Unite.
  3. “L’assistenza psicologica ai profughi Ucraini” . In occasione dell’- attivazione del soccorso psicologico ai profughi Ucraini a causa della guerra e ai volontari chiamati all’intervento, Psicologi per i Popoli Trentino ha prodotto, a cura di Coelli D. e Ranzato L. alcune proposte formative che presentiamo come stimoli alla riflessione su di un tema che rimane purtroppo di gravissima attualità.

[ Luigi Ranzato ]

Elisabeth Weger, Brunella Fournier, Sara Piazza, Elena Pezzi, Christian Tomasini

L’intervento dello psicologo, in sinergia con tutte le forze, per la persona colpita da incendio della propria dimora

Riassunto

Da qualche anno viene richiesto anche in Italia l’intervento dello Psicologo in situazione di incendio grave per essere di sostegno alle vittime primarie e anche ai Vigili del Fuoco quando lo ritengono necessario. L’incendio, insieme alla perdita della propria casa è vissuto dalle persone che la abitano con sgomento e paura. Non solo perdono un luogo dove sentirsi sicuri e protetti, ma anche un luogo che conserva la storia della famiglia. Il fuoco si porta via oggetti materiali, ma ancora di più affetti e ricordi, le radici delle vittime. Quando si verificano tali situazioni drammatiche è importante che non ci siano morti né feriti, tuttavia la situazione è considerata grave anche quando ci sono “solo” danni materiali. Considerato che a livello europeo è già prassi fare intervenire lo psicologo insieme ai Vigili del Fuoco, il presente articolo si pone l’obiettivo di determinare alcune linee per intervenire con competenza in situazioni di alta complessità che rendono ogni intervento critico e rischioso. La finalità è quella di evitare danni collaterali sia sul corpo che sulla psiche delle vittime e i Vigili del Fuoco, coinvolti nell’incendio.

Parole chiave: disastro da incendio, vittime primarie, vigili del fuoco, sofferenza, psicologo.

Abstract

For some years now, the intervention of the Psychologist in a situation of serious fire has also been required in Italy to be of support to the primary victims and also to the Fire Brigade when they deem it necessary. The fire, together with the loss of one’s home, is experienced by people who live there with dismay and fear. They do not only lose a place where they feel safe and protected, they also loose a place that preserves the history of the family, the fire takes away material objects, but even more affections, memories, and also the roots of the victims. When such dramatic situations occurs, it is first of all important that there are no deaths or injuries, however it is a dramatic situation even when there is “only” material damage. Considering that at European level it is already common practice to have the psychologist who intervene together with the Fire Brigade, this article aims to determine some lines to be present competently in situations of high complexity that make every intervention critical and risky. The aim is therefore to avoid collateral damage to both the body and psyche of the victims and the fire brigade too, involved in the fire situation.

Key words: fire disaster, primary victims, fire brigade, suffering, psychologist.

Il fuoco è un simbolo naturale di vita e passione, sebbene sia l’unico elemento nel quale nulla possa davvero vivere.

Susanne K. Langer

Quando è necessaria l’evacuazione in caso di incendio

L’evacuazione della popolazione dalla propria abitazione si rende spesso inevitabile a seguito di un pericolo imminente o di un evento che ha causato l’inagibilità, anche se temporanea, dell’edificio. In considerazione del notevole disagio che tale evento comporta, è necessario che la decisione di evacuare venga valutata con attenzione per porla in atto solo quando è strettamente necessario.

Nello stesso tempo va però attuata senza inutili indugi che possono mettere a rischio la sicurezza dei cittadini coinvolti. Nel caso descritto purtroppo l’evacuazione è necessaria per sopravvenuta inagibilità di alcuni appartamenti. L’incendio della propria abitazione è identificato come un tipo di incidente con un alto grado di incertezza spaziale e non è determinabile a priori. Esso rende possibile conoscere la zona investita e stabilire necessità e tipo di evacuazione solo al momento dell’evento stesso (tempo connesso con la rilevazione (tdet) e l’allarme (twarm). In questo lasso di tempo – durante il quale le persone cercano di comprendere cosa stia accadendo e che significato ciò abbia per la loro vita e per quella dei loro cari, appaiono confuse, frastornate – si determinano le condizioni emotive e pragmatiche che influenzeranno le decisioni delle persone coinvolte, soccorritori e vittime (tempo di pre-movimento (tpre).

Tutto questo può concretizzarsi infine nel tempo di movimento (ttrav), dedicato all’azione fisica dell’allontanamento dalla fonte di pericolo e che si completa con il raggiungimento del luogo sicuro prima che la condizione diventi critica (limite di sostenibilità) (Fasi temporali di un’evacuazione – fig. 1).

Da questo momento in poi si rende necessario predisporre una prima azione di supporto alla popolazione, con adeguata assistenza alle famiglie soggette ad evacuazione avvalendosi delle strutture previste dal piano comunale o altro, in collaborazione con tutte le forze coinvolte.
Considerata la complessità della situazione in generale legata alla difficoltà dello spegnimento dell’incendio – e dunque all’allungamento del tempo di intervento – al numero elevato di persone colpite ed evacuate, al coinvolgimento di tutta la popolazione locale e non che viene attirata dal grave evento, il responsabile operativo dei soccorsi (di seguito ROS) decide di attivare l’associazione Psicologi per i Popoli – Trentino ODV (di seguito PxP TN) con lo scopo primario di essere di sostegno alle vittime evacuate e a parenti e conoscenti, ma anche curiosi che iniziano a radunarsi per strada, creando affollamento. Persone che guardano con occhi spaventati ciò che succede, che urlano, piangono disperati e corrono alla ricerca dei loro animali che non trovano più. La prima preoccupazione dei VVF è che nessuno si metta in pericolo: sapere che le persone sono in sicurezza permette loro di concentrarsi totalmente per spegnere l’incendio, che in pochissimo tempo dilaga sugli altri appartamenti e abitazioni. Le fasi dello spegnimento sono rese molto difficoltose sia dal vento che quel giorno è di troppo e dalla logistica: “perché le case sono collocate in pieno centro abitato e perché i mezzi non possono raggiungere il fuoco su tre lati della casa”, come spiega Tomasini.

La complessità della situazione

Arrivati sul posto, vediamo il fuoco che si alza in volo, come una fiamma volante. Il fuoco che sembra avere le ali (rif. G. Bachelard, 1973), aiutato dalla forza del vento. Le fiamme che si alzano sempre più verso il cielo, che i VVF cercano di contrastare e combattere con tutta la loro energia e forza attraverso il suo antagonista … l’acqua. Tra una corsa e l’altra un veloce saluto, le Psicologhe si dirigono verso le famiglie che con occhi increduli guardano l’inferno di fiamme che divora i loro averi e la loro storia. Famiglie che sorrette da parenti, amici, conoscenti e d’ora in poi anche dalle Psicologhe, aspettano la fine di questa devastazione per poter recuperare un minimo di controllo. La gente ha fiducia dei loro Vigili; è grazie a loro che non perdono la Speranza. Qualcuno dice: “non sarà bruciato tutto, sarà rimasto qualcosa. Dai, si ricostruirà”, “certamente l’acqua sarà più forte, vincerà la lotta”.

Accanto alle angosce di distruzione che quel fuoco richiama, cresce il sospetto, come significazione di quanto le persone stanno vivendo: “come è che si è acceso questo fuoco?”, “Sarà partito da solo? Non può essere….”.
Pensieri e sospetti che volano insieme al vento che alimenta ancora le fiamme di questa notte poco prima di Natale. Lo stesso vento che porta via pensieri, sentimenti, emozioni, parole, ma poi riporta tutto indietro, alimentando il pensiero sospettoso, che già pesa come un macigno “ma perché a noi?”. Le persone, vittime di incendio hanno spesso bisogno di trovare un colpevole per riuscire a contestualizzare la sofferenza, attribuire una “causa” per non cadere nella totale disperazione, perché le vittime sono in preda all’emotività e alla sofferenza più assoluta.

Rimane però sempre la fiamma della speranza e quando un vigile del fuoco arriva con una fotografia nemmeno tanto bruciata, chi la guarda rimane colpito: scende una lacrima perché “è la foto dei nonni. Grazie”.

Vissuti e emozioni delle persone vittime dell’incendio

I nipoti raccontano che hanno appena ristrutturato la casa dei loro nonni, doveva avere una nuova vita questa casa. In questo marasma di disperazione si nota anche un frammento di gratitudine per aver tra le mani un simbolo della storia, anche se il dispiacere per aver perso un patrimonio di altre storie – che raccontano – naturalmente rimane forte. Storie di una famiglia, Storie di un Paese, di cui anche tanti Vigili del Fuoco fanno parte e che si trovano con la loro gente sul posto e forse sono pure vicini di casa, amici. Persone che li guardano con occhi speranzosi “per piacere, posso salire a casa?”, “posso vedere?”. È difficile quando a chiederti questo è un amico o un conoscente.
I comandanti si prendono tutti insieme l’onere di proteggere i loro uomini, le squadre di intervento e le persone tutte. La prima regola è: “che nessuno si faccia male. Che nessuno corra dei rischi” perché di rischi in situazione di emergenza ce ne sono già molti. Quindi, si attendono tante ore, durante le quali non mancano momenti di tensione, lacrime, gesti di affetto, una coperta sulle spalle. Qualcuno aspetta a casa di parenti, qualcuno viene ospitato dagli amici e altri vogliono rimanere in attesa, aspettare insieme ai Vigili che corrono e le Psicologhe che abbracciano le persone con gli occhi rivolti verso il cielo, rimangono in ascolto del silenzio, cercando di lenire il dolore dell’anima che brucia e il corpo che sente il freddo dell’inverno. Le persone escono sempre con i pochi vestiti che hanno tra le mani, nessuno pensa di non poter più rientrare a casa sua. Purtroppo questa volta non si può tornare a casa, l’incendio continuerà a tenere impegnati i Vigili complessivamente per due giorni e due notti.

Il fuoco nella storia antica

Non è possibile far riferimento a questo evento emergenziale dell’incendio se non in relazione al suo elemento causativo che è il fuoco, circondato da miti e timori.
Il simbolo archetipico del fuoco trattiene in sé tutta la sua complessità in quella che si riassume come la perfetta commistione di contrari: l’elemento vitale ἔρως si contrappone all’imponente forza distruttiva del θάνατος, essenza mortifera, ma nello stesso tempo trasformativa1 Ricciuti Francesca, “I volti della filosofia: Eraclito, il filosofo del logos” https:// lacittaimmaginaria.com/i-volti-della-filosofia-eraclito-il-filosofo-del-logos/.
Fu proprio il figlio di Giapeto, il titano Prometeo, a compiere il furto del fuoco all’interno del testo della Teogonia di Esiodo (rif. Poema mitologico),2 Poema mitologico in cui viene narrata la genealogia degli dèi greci e la loro storia, composto attorno al 700 a.C. al fine di garantire agli uomini l’accesso alla conoscenza che, in ottica psicologica, si traduce come l’atto puro di sublimazione necessario al compiersi dell’aspetto maturativo dell’uomo, che si fa carico della scoperta di se stesso, abbracciando la realtà nei suoi aspetti senz’altro positivi, nondimeno negativi (rif. Biasoni3Biasoni Andrea, “Il simbolo del fuoco”: https://online-psicologo.eu/interpretazione-dei-simboli-psicologia/simbolo-del-fuoco/). Ed ecco che un simbolo, così carico di significati esistenziali, si è abbattuto inesorabilmente quella sera poco prima di Natale, su questo folto gruppo di famiglie.

L’ambivalenza tra distruzione e fascino del fuoco.

A fianco dell’incubo di distruzione attraverso il fuoco si colloca il sogno del cambiamento, che è il simbolo della vita che nasce e che necessita di alimentazione per non morire, caratterizzato dal calore e dal movimento (rif. Razzoli, 2011).
Sul piano razionale sappiamo che il fuoco è un processo di combustione che può auto-generarsi palesandosi in luce e calore, la cui azione è, nell’immediato, distruttiva rispetto alle strutture organiche che riduce in fumo e cenere in modo irreversibile. La capacità di maneggiarlo è una competenza esclusivamente umana, più del linguaggio e dell’uso di strumenti, in più è universale. Nel noto saggio sulla magia e sulla religione (rif. 1922) Frazer documenta la diffusa usanza di accendere fuochi in occasione di festività estive, fine autunnali o invernali, in analogia con pratiche anteriori alla diffusione del cristianesimo.
Sono innumerevoli i miti sulla sua origine e le tradizioni dell’antichità classica che vi si riferiscono. Lévi Strauss (rif. 1982) afferma che un elemento comune a tutti i miti sul fuoco è l’idea che solo impossessandosene gli uomini siano diventati veramente umani.
Quando il filosofo francese Bachelard si confronta con scienziati e persone colte ponendo la domanda “Che cos’è il fuoco?”, ogni spiegazione sembra ancorarsi “inconsciamente” ad antiche e chimeriche filosofie; ma ogni spiegazione sembra poco soddisfacente affinché la psiche possa “aprirsi” alla scoperta di una verità che non può essere “dimostrata” quanto piuttosto “mostrata”, in quanto aperta ad un perenne divenire. “Se tutto ciò che cambia lentamente si spiega attraverso la vita, ciò che cambia rapidamente si spiega attraverso il fuoco. Il fuoco è l’ultra vivente. Il fuoco è intimo e universale. Vive nel nostro cuore. Vive nel nostro cielo. Giunge dagli abissi della sostanza e si offre come un amore. Ridiscende nella materia e si nasconde, latente, sopito come l’odio e la vendetta. Tra tutti i fenomeni, è veramente il solo che possa ricevere in modo così chiaro i due valori contrari: il bene e il male. Il fuoco splende in paradiso. Brucia all’inferno. È dolcezza e tortura” (rif. Bachelard, 1973).

L’intervento psicologico in caso di incendio

Il comandante Tomasini spiega quali sono le motivazioni per cui i VVF chiedono l’intervento degli Psicologi per i Popoli nelle circostanze di un incendio. In prima linea – afferma Tomasini – sappiamo che abbiamo bisogno degli Psicologi affinché si prendano cura delle vittime dell’incendio, ma anche di tutte le persone, che ne sono in qualche modo coinvolte o diventate spettatori. Le Psicologhe hanno gli strumenti per tranquillizzare le persone che devono lasciare casa, sono spaventate e possono avere reazioni emotive molto forti.
Altra necessità è quella di gestire potenziali reazioni oppure interferenze delle persone coinvolte e che spingono per accedere alla casa per recuperare ancora determinati oggetti. Cose che in situazioni di grave rischio purtroppo non si possono concedere e occorre spiegare alle vittime che spesso chiedono con molta insistenza o si arrabbiano perché non possono entrare in casa, qualcuno vuole addirittura fare irruzione e ciò mette a rischio loro e chi sta intervenendo.
In corso d’incendio – dice ancora Tomasini – quando si accede al luogo dell’incendio, anche noi entriamo in casa senza sapere mai cosa si può trovare dietro una porta, se ci sono oggetti infiammabili o altro. È sempre necessaria una grande prudenza.
Allo Psicologo chiediamo quindi di accogliere le persone e le famiglie, cercando di dare loro un posto sicuro e delle informazioni chiare, ma in modo tranquillizzante, in questa situazione di grande sofferenza, incertezza, caos. I Vigili devono correre contro il tempo per spegnere il fuoco, gli Psicologi devono usare il tempo per prendersi cura delle persone che stanno soffrendo.
“Noi Vigili del Fuoco spesso proveniamo poi dallo stesso paese delle vittime. Ci conosciamo e ci mettiamo nei panni di questi cittadini o compaesani che si sentono nudi davanti a tutto e tutti. Non hanno più nulla e noi vorremmo salvare il salvabile. In casa tua, nella tua sfera privata, devono entrare tante persone con gli scarponi, dove magari il giorno prima tu ti sei levato le scarpe prima di entrare per tenere pulita la casa. Casa tua non è più solo tua… Noi queste cose le sappiamo e pensiamo a spegnere il prima possibile”.
Un altro aspetto secondo Tomasini è anche correlato alla gestione corretta delle informazioni e della comunicazione. Per ovviare a questo problema, dice il comandante, “il nostro corpo ha adottato l’uso di auricolari sulle radio”. Questo serve per poter comunicare tra di noi ma anche per evitare che le vittime ascoltino accidentalmente o per caso informazioni che devono essere trasmesse con cautela e cura. In caso di incendio noi abbiamo un riferimento chiave per il nucleo coinvolto che mantiene la comunicazione. Questa volta però le persone e le famiglie coinvolte sono troppe e l’incendio enorme richiede l’energia di ogni singolo uomo e mezzo sul posto.

Significato della Casa come il Luogo Sicuro che brucia

Al caos generale, creatosi dall’intervento si associa quello delle persone coinvolte: l’incendio rappresenta l’evento che crea una “disruption” che in italiano possiamo tradurre come interruzione rispetto al cosmos pregresso. Ciascuno di noi, è abituato ad (o ha bisogno psichicamente di) un universo ordinato, prevedibile ed anticipato, in cui si muove il nostro sistema psichico. Quando questo sistema (cosmos) viene meno, al punto che non è più possibile sapere cosa ci succederà, non solo nel futuro, ma anche nell’immediato presente, a causa di un evento imprevedibile, ciò genera confusione mista alla necessità di ridare un senso a tutto.
L’allontanamento improvviso dal luogo in cui ci si sente al sicuro ed è considerato il “luogo di attaccamento” è considerato un evento potenzialmente stressante, aggravato soprattutto nei casi in cui esso sia causato da catastrofi naturali o perdita di persone care. In caso di incendio, si tratta di una rottura forzata dovuta all’inagibilità delle abitazioni prima e alla ricostruzione delle stesse in un secondo tempo, con rilocazione temporanea in un contesto estraneo e conseguente disgregazione della rete sociale. I diversi esiti che si riscontrano nell’individuo a seguito di tale evento possono essere legati anche al significato che l’oggetto perduto riveste per l’individuo. L’abitazione e il quartiere in cui si cresce sono collegati alle parti più affettive di sé; sono il background di molte importanti relazioni e della storia personale di ciascuno: per cui difendere i propri spazi e i luoghi familiari equivale a difendere la propria identità (rif. Proshansky et al, 1992). Possedere un’abitazione, oltre al desiderio di dare un aspetto concreto e duraturo ai risparmi di una vita, provvede a questa necessità profonda di protezione del sé. Da un aggiornamento dell’ISTAT del 2018 si evince come oltre il 70% delle famiglie residenti (quasi 19 milioni di famiglie) viva in una casa di proprietà, mentre poco meno del 20% vive in abitazioni in affitto o sub-affitto (rif. ISTAT, aggiornamento 2018 del 15° Censimento della popolazione e delle abitazioni). Tale dato avvalora l’importanza che l’abitazione e il luogo in cui si cresce rivestono per ogni singolo individuo.

Ed è in questo clima convulso, che lo psicologo incontra i protagonisti della drammatica vicenda, impotenti, esterrefatti spettatori della macabra storia dell’epilogo della propria dimora familiare, luogo di ricordi, progetti presenti e sogni per il futuro che stanno andando letteralmente in fumo.

Strategie di intervento in emergenza

L’intento di questo articolo vuole essere anche una sistematizzazione di un intervento psicologico in caso di incendio, volto prima di tutto al sostegno emotivo alle vittime, alla facilitazione dell’elaborazione dell’esperienza traumatica ed a fornire strumenti di supporto indirizzati all’accoglimento del dolore che, però, una volta metabolizzato, si tramuti in forza propositiva e di ricostruzione, sia in termini di rappresentazione identitaria, che in attivazione di risorse fattuali, per porre rimedio ai danni causati alle cose materiali annientate dall’incendio.
Per fare un confronto, abbiamo raccolto delle informazioni sugli interventi in emergenza a livello europeo e nella vicina Austria, con la finalità di incrementare il nostro apporto professionale, cercando di identificare delle linee di intervento sempre più efficaci. Questo diventa ancora più importante perché ci troviamo in una situazione dove l’intervento avviene “in loco” ed è ancora “in corso”, non definito, quindi una situazione di grave incertezza e instabilità, “il caos”. In riferimento di ciò riportiamo alcune riflessioni della Psicologa dello Sviluppo Barbara Juen, docente presso l’università Leopold Franzens di Innsbruck (A) e che ha creato la Psicologia dell’Emergenza in Austria 25 anni fa. La dottoressa Juen (rif. 2010) spiega come in Austria e Germania sia già abitudine che lo Psicologo in Emergenza (in tedesco Notfallpsychologe) venga chiamato per interventi di incendio, con finalità di dare un sostegno efficace alle vittime primarie e secondarie coinvolte. In Italia – ad oggi – ciò non è successo spesso, ma questo articolo dimostra che è una realtà applicata anche a livello nazionale. La docente afferma come “ogni intervento in caso di crisi debba offrire quattro cose essenziali alle vittime e loro parenti che sono colpite dall’emergenza: prima di tutto, in ogni situazione drammatica, le vittime hanno bisogno di sicurezza, di uno spazio tutto loro, in cui siano anche protetti dalla stampa e quindi possano sentirsi in mani sicure. Di fondamentale importanza appare quindi l’individuazione di un luogo sicuro ed accudente, non eccessivamente invadente e rispettoso del dolore e delle volontà intime di riservatezza della vittima” (rif. Juen, 2010).
Immediatamente abbiamo individuato una serie di sinergie con quanto insegnatoci dal fondatore di Psicologi per i Popoli Trentino, il Cav. dott. Luigi Ranzato che certamente sottoscrive queste considerazioni e pone il focus su strategie vigenti a livello europeo. Le persone richiedono ed hanno bisogno di informazioni certe, che corrispondano alla verità. Vogliono sapere come è avvenuta la disgrazia o il disastro, chi è stato colpito e quali misure di soccorso sono state adottate. La terza area di intervento che riguarda tutti i soccorritori, ma in modo particolare gli Psicologi, è la gestione delle emozioni e dello stress che l’evento comporta. Ci sono alcune emergenze che si protraggono nel tempo, dove purtroppo ci sono morti e feriti, ma anche quando ci sono immensi danni materiali, spesso emergono sospetti, conflitti oppure vissuti personali profondi e le persone hanno bisogno di un appoggio, di essere accolte, spesso senza tante parole. Gli Psicologi ci sono, rimangono a disposizione, accompagnano, sostengono e soccorrono le vittime primarie e i loro parenti.
Il quarto aspetto riguarda il bisogno di recuperare un minimo di controllo, di uscire dalla situazione di caos per poter creare un ordine. Le vittime devono avere la sensazione di poter controllare almeno in parte la situazione. Abbiamo descritto la situazione di incendio come un caos ed è al suo interno che le persone hanno bisogno di ritrovare un senso per poter recuperare il controllo. Certo, può trattarsi di cose molto basilari, ma certamente trattiamo le persone colpite come adulti responsabili. Hanno bisogno di qualcuno che li sostenga nella situazione di crisi, e sono sempre liberi di decidere se desiderano il supporto di uno psicologo oppure no.
Il luogo dove poter consentire un colloquio, il più possibile privato, non deve frapporsi in alcun modo alle operazioni logistiche degli operatori di soccorso.

L’intervento dello psicologo in caso di incendio con gravi danni

Prima di tutto lo psicologo che viene chiamato su un luogo di incendio, cerca di individuare un posto riservato e considerato sicuro perché protetto, come ad esempio un gazebo, con lo scopo di poter fornire assistenza sul o nelle vicinanze del luogo dell’incendio, un gazebo dove si possono distribuire bibite calde e coperte e dove i parenti possono ricevere informazioni, sostegno oppure una parola di conforto. Nella situazione – oggetto dell’articolo – abbiamo individuato un bar del paese non troppo distante dal luogo dell’incendio, che consentisse di essere sufficientemente distanti dal luogo dell’incendio, di monitorare la situazione ed essere disponibili, all’occorrenza, per poter parlare con le vittime, pensare insieme a come gestire alcune loro preoccupazioni, essere disponibili per gli operatori intervenuti, certamente mai dimenticandosi della riservatezza. Deve sempre trattarsi di un luogo il più possibile privato dove sia possibile mantenere una “giusta distanza” che rispetta la libertà di movimento delle operazioni logistiche degli operatori di soccorso.

In caso di incendio viene assegnato alle vittime un riferimento chiaro e unico nella figura del ROS, affinchè tutte le vittime sappiano a chi rivolgersi. Nelle situazioni complesse come quella descritta, diventa per i VVF impossibile essere a disposizione in quanto devono usare tutte le forze per spegnere l’incendio. In più, le famiglie e le persone coinvolte sono troppo numerose. In attesa che il ROS si liberi per rispondere ai dubbi e preoccupazioni delle persone, se ne occupa lo Psicologo, che fornisce aggiornamenti e informazioni da fonti certe.
Capita talvolta che si verifichi una fuga di notizie, in termini di informazione sbagliata o distorta e la gestione delle stesse non viene mai sottovalutata. Social e media – ma anche conoscenti – potrebbero pubblicare notizie molto più velocemente di quanto possano fare i servizi di soccorso sul campo. Per questo motivo vi è un rischio che sfuggano delle notizie che vengono inviate a persone in condizione di fragilità, come è capitato ad una signora in ospedale che ha ricevuto un messaggio con la foto dell’incendio della propria casa. Possiamo immaginare quanto ciò possa creare una sofferenza inutile.

L’approccio alle vittime deve quindi essere sistematico e polisemico. Di primaria importanza è constatare che le stesse non abbiano subito danni fisici e, in caso positivo, allertare, ipso facto il personale sanitario.
Lo psicologo ha il compito di acquisire più informazioni possibili in merito alle vittime ed alle loro reazioni: dovrà sapere se hanno reazioni fisiche (es. accelerazione battito cardiaco, difficoltà respiratorie, etc.), ovvero reazioni cognitive (es. disorientamento), emozionali (es. le vittime potrebbero sperimentare esperienze di frammentazione, senso di abbandono, rabbia, sconforto e disperazione), comportamentali (aumento o diminuzione dell’efficienza)4Di Fresco Carmelo, “Il trauma della vittima e del soccorritore”, https://www.opipalermo.it/.
L’esposizione ad un evento d’emergenza, difatti, provoca ingenti cambiamenti psicofisiologici a carico principalmente del sistema nervoso autonomo e all’asse ipotalamo-ipofisi-surrene: si attivano, così, i cosiddetti “comportamenti di sopravvivenza”:

dal “fight and flight” (lotta e fuga);
al faint (svenimento/distacco);
e infine al “freezing” (congelamento).5Carbone Elena, “Trauma: più complesso di quello che pensiamo”, https://www.elenacarbone.it/ trauma-piu-complesso-di-quello-che-pensiamo/

Le operazioni di intervento possono inoltre protrarsi per moltissime ore, spesso addirittura giorni e fornire un angolo per rifocillarsi rappresenta un ulteriore sostegno che mitiga in piccola parte gli stressors percepiti.
Lo psicologo, di fronte all’evento, deve dunque considerare la persona fisica/ vittima non solo nella sua corporeità fisica e mentale, bensì quale “insieme” dell’ambiente, che interagisce con la stessa in termini emozionali e di reazione.
Rimane buona prassi riuscire a mediare il più possibile interventi da parte di terzi a supporto delle vittime dell’incendio, poiché spesso, quantunque una rete di supporto sociale rappresenti un elemento positivo di conforto e sostegno, non è raro vi sia la comparsa di vissuti ambivalenti a carattere fortemente paranoideo: ciò accade specialmente quando non sono chiare le circostanze entro le quali l’incendio si è innescato e può prefigurarsi, nelle vittime, l’ipotesi di un possibile dolo.
Lo psicologo, dunque, deve agire come un sapiente Demiurgo, anche cercando di condurre i propri pazienti ad una riduzione dell’arousal,6Psiche Santagostino, “Cos’è l’arousal o la soglia di attivazione psicologica”, https:// psiche.santagostino.it/arousal/ attraverso l’emersione dei vissuti emotivi, della propria storia di vita personale in relazione all’evento incendio, garantendo un ascolto empatico, partecipativo e non giudicante.
La presenza di trascorsi di vita pregressi delle vittime, che presentano elementi di conflittualità, difficoltà, svantaggio economico sociale, storie di malattie e di lutti possono ulteriormente inficiare ed influenzare la percezione dell’evento emergenziale, costituendo elementi utili alla classificazione e definizione dei possibili fattori di rischio, in ottica operativa e preventiva.
Foa e Rothbaum7Foa, E.B. & Rothbaum, B. (1998), “Treating the trauma of rape: a cognitive-behavioral therapy for PTSD”. New York: the Guilford Press. hanno elaborato un modello di elaborazione emotiva dell’evento traumatico entro il quale sono analizzati gli assunti pretraumatici di flessibilità o rigidità di credenze su sé e sul mondo, gli schemi cognitivi coinvolti in un possibile recupero o manifestazione patologica e le informazioni sulle credenze post traumatiche delle vittime.

Una testimonianza: l’incendio della casa di Sara il 30 gennaio 2013

Una sera di inverno, dopo cena, per caso esco sul poggiolo e mi incuriosisce un rumore scoppiettante di cui non riesco ad individuare la provenienza.
È buio ma al contempo c’è una luce strana.
Alzo istintivamente gli occhi al cielo e dal camino vedo uscire lapilli incandescenti, come dalla bocca di un vulcano.

Il fuoco arriva senza preavviso, veloce e divorante, non chiede il permesso, si intuisce prima ancora di vederlo, è totalizzante, non c’è tempo per sentire o esprimere la paura.

Corro in casa urlando che la casa brucia, ma mi guardano increduli e io stessa, per essere sicura dell’enormità della mia scoperta, corro al piano di sopra, in mansarda, ed entro nella camera di mia figlia, quella proprio sotto il camino: qui si sentono fortissimi e continui rumori di legno secco che arde, le fiamme non si vedono ancora ma stanno già lavorando intensamente nel sottotetto.

Scendo rapidamente le scale urlando, ancora più forte, che l’incendio c’è veramente. La mia espressione e concitazione non consentono dubbi o incertezze.

L’incredula inerzia si trasforma immediatamente in azione.
Usciamo di corsa fuori a guardare il tetto e vedere fiamme alte diversi metri.

Mio marito ordina a nostro figlio Filippo di correre in cantina a prendere i tre estintori e di raggiungerlo sul colmo del tetto dove lui sale subito con delle coperte.

Sul tetto c’è mezzo metro di neve, nessuno dei due si è messo le scarpe ma non se ne accorgono ed entrambi cavalcano il colmo fino dalla parte opposta, dove la casa è alta, dove il camino erutta il fuoco. Assieme vi scaricano gli estintori e, ottenuta una tregua momentanea della colonna di fuoco, lo incartano con le coperte.

Poi i vigili del fuoco ci diranno che questo ha probabilmente salvato la casa.

Ma sul tetto, esauriti gli estintori ed utilizzate le coperte che non saranno più ritrovate, padre e figlio si guardano e si rendono conto che sotto la neve si intravede una diffusa luce rossa, si sentono scoppiettii sempre più forti, si avverte il pericolo del crollo ed allora, piano piano a ritroso, sempre a cavalcioni del colmo del tetto, sono costretti a scendere con l’angoscia legata al senso di impotenza.
Lo hanno rallentato ma non sono riusciti a spegnerlo. E sta ripartendo.

Di sotto io e mia figlia Caterina intanto abbiamo chiamato i vigili del fuoco.

Caterina ha la prontezza di precisare ai pompieri che non possono raggiungere casa nostra con una autobotte grande, non ci passerebbe per la strada: la ascoltano.

Nel giro di pochissimo arrivano i vigili del fuoco volontari del paese che per avventura erano in sede per una riunione. Dopo due o tre decine di minuti gli effettivi del reparto di Trento. Arrivano su dalla salita a piedi, con le maniche per l’acqua, le motoseghe, gli attrezzi in spalla. Di corsa perché neppure il camion piccolo ci passava ed ha dovuto fermarsi a metà della salita.

Ci sono decine di ragazzi con l’elmo dello stesso colore ed un uomo con un casco di colore diverso schierati nel prato davanti a casa ma non si muovono. La casa brucia.

Mio marito va dall’uomo coll’elmo di colore diverso, si capisce che è il capo. Chiede perché non si stiano attivando, gli viene risposto che stanno valutando con una termocamera, dove si trova il fuoco e che estensione esattamente abbia sotto le tegole. Bisogna avere pazienza e fidarsi del loro lavoro.

Non useranno l’acqua dell’idrante che è proprio davanti casa perché ricadendo sui piani inferiori avrebbe fatto più danni del fuoco.

Saliranno poi tutti sulla parte ancora sana del tetto, tireranno le tegole a terra e taglieranno con le motoseghe travi e travetti creando un vallo tra la parte irrecuperabile e quella che in tal modo si è salvata.

Arriva anche qualche paesano, i giornalisti. Dopo qualche domanda scontata fanno notare a mio marito che è in pigiama e senza scarpe, nella neve.

Il desiderio di fronte al fuoco che divora è quello di salvare la propria casa, e con essa tutto ciò che contiene e rappresenta. Per noi la nostra casa rappresenta la storia della nostra famiglia, i progetti condivisi, la fatica e i sacrifici fatti per realizzarla. È una casa dall’edificio molto particolare, arredata e abbellita di tante cose personali raccolte durante i viaggi e di tante foto della nostra vita di famiglia. È un posto sicuro per tutti noi ma anche luogo di accoglienza e di incontri, un luogo dove raccogliere amici e parenti, dove i figli fanno feste.

Non c’è la possibilità di pensare e di scegliere cosa portare via. L’unico ignaro è il nostro cane che terrò in braccio tutto il tempo per proteggerlo e nel contempo per rassicurarmi che siamo tutti salvi.

È però solo nel momento in cui i pompieri passano all’azione e in un certo modo sento che la situazione è sotto controllo, che perdo il mio e lascio uscire la mia angoscia in un pianto disperato. Tanti i pensieri che affollano la mia mente: e se non mi fossi accorta subito del fuoco? Siamo davvero tutti al sicuro? Perché tocca sempre a me fare da “sentinella” negli incidenti? L’ incendio sta distruggendo la camera di Caterina, come vivrà questo evento che segue all’incidente in moto di poco tempo prima? È destino che questa casa non debba avere un futuro? Mio figlio starà bene? E mio marito che aveva il progetto di venderla come vivrà questo evento? Mi sento come se dovessi dare espressione a tutte le emozioni dei vari componenti della famiglia in un solo istante. Fortunatamente trovo riparo e conforto assieme al cane a casa dei miei vicini che mi offrono qualcosa di caldo e mi aiutano a ritrovare la calma.

Quando tutto è finito siamo concordi che per il resto della notte dormiremo in casa, non la lasceremo come ci era stato proposto. Una parte dell’edificio è comunque abitabile, l’odore di fumo sopportabile, non la abbandoneremo.

La mattina dopo mio marito però avrà una crisi di panico: affrontate senza paura le fiamme, ora può esprimere tutta la paura di quegli istanti. Non ricorda come sia arrivata sul tetto la gomma dell’acqua, eppure deve averla portata su lui…

I ragazzi sembrano tranquilli, vanno a scuola, la vita continua.

Dopo qualche giorno penso che un evento così importante meriti un momento di elaborazione e chiedo a Gigi, un amico e collega psicologo dell’emergenza, di aiutarci con un incontro di debriefing con lui.

Sarà utilissimo per confrontarci, esprimere le nostre emozioni e pensieri, e per scoprire quanto siamo riusciti ad essere in sintonia e organizzati nell’affrontare l’emergenza, per rinsaldare il nostro senso di famiglia, scoprire assieme un diverso sentire quanto è successo.
I nostri figli adolescenti hanno agito come componenti adulti del gruppo, quello che è successo ci ha dato la possibilità di apprezzare tutte le risorse messe in campo da ognuno di noi secondo le proprie possibilità in un’azione risultata forte dalla nostra unione.

 

Conclusioni

A livello europeo è diventato normalità che la figura dello Psicologo sia coinvolto nelle emergenze anche di tipo incendiario insieme ai Vigili del Fuoco. Il suo compito – oltre ad occuparsi delle Vittime – è anche quello di evitare e essere a disposizione per ridurre la fatica e lo stress che possono subire gli stessi soccorritori. Ciò diventa ancora più importante quando si verifica una situazione di elevatissimo grado di complessità, confusione e caos, che non si sa fino a quando si potrà protrarre. Il senso di incertezza – che si mescola alla sofferenza delle vittime di incendio – insieme a quella legata al venir meno delle forze dei soccorritori quando un’emergenza si protrae per ore o giorni, per giunta in imminenza di festività ad elevato carico emotivo sul piano personale e famigliare fa presupporre che la presenza di uno Psicologo sul posto possa essere molto importante. Diventa quindi fondamentale il “saper fare” questo tipo di intervento anche perché i Vigili del Fuoco non possono dare direttive. Lo Psicologo arriva sul posto e conosce le linee di intervento da applicare. L’intento di questo articolo è quindi l’individuazione di una linea da seguire, sempre con la flessibilità e duttilità con cui ci adattiamo alla situazione di emergenza, ma con una linea di indirizzo costruita su una base di pensiero e azioni già sperimentate, con la finalità di incrementare le competenze nelle situazioni di alta criticità e complessità. Conoscere le linee e i processi di intervento, ma anche conoscere aspettative e difficoltà in determinate circostanze di emergenza non solo aumenta la sinergia tra i soccorritori perché non c’è bisogno di chiedere indicazioni perché manca il tempo per accordi e confronti. Di conseguenza diventa necessario definire i processi prima del verificarsi delle situazioni che purtroppo non sono evitabili, al fine di riuscire a trasmettere un minimo di sicurezza alle vittime, che davvero rischiano di perdere tutto.
Questo articolo è stato scritto con l’intento di definire queste linee essenziali di intervento che mirano a creare una base in una situazione di estrema criticità.

Elisabeth Weger, Brunella Fournier, Sara Piazza, Elena Pezzi, Psicologi per i Popoli – Trentino OdV Christian Tomasini, Comandante VVF di Ziano di Fiemme (TN) Ringraziamenti per revisione: Daniele Barbacovi, Catia Civettini.

Motori di ricerca utilizzati:
Pub Med, Research Gate, Google Scholar, Wiley Library.

Libri e/o Articoli
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Siti:

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  9. https://lacittaimmaginaria.com/i-volti-della-filosofia-eraclito-il-filosofodel-logos/. Ricciuti Francesca, “I volti della filosofia: Eraclito, il filosofo del logos”.
  10. Poema mitologico in cui viene narrata la genealogia degli dèi greci e la loro storia, composto attorno al 700 a.C.
  11. https://online-psicologo.eu/iterpretazione-dei-simboli-psichologia/ simbolo-del-fuoco/#: ~:text=Il%20terribile%20prezzo%20pagato% 20da,della%20%E2%80%9Cvendetta%E2%80%9D%20degli%20dei. Biasoni Andrea.

Sara Pietracci

Dopo paura, rabbia e tristezza, le persone attivano nuovi processi adattativi. Bene le reti sociali, mai restare soli. Intervista a Claudia Filipetta

8Da: Claudia Filipetta (Psicologi per i Popoli): dopo paura, rabbia e tristezza, le persone attivano nuovi processi adattativi. Bene le reti sociali, mai restare soli; 02 giugno 2023

Prima l’allarme evacuazione e la fuga dalla propria abitazione, portando con sé poche cose care. Poi la paura per quello che sarebbe potuto accadere o il terrore per ciò che stava avvenendo di fronte ai propri occhi: la furia dell’acqua che invade ogni cosa. È quanto hanno vissuto tanti romagnoli nei giorni dell’- alluvione. Ora c’è chi è tornato nella propria abitazione, altri no, vivono da parenti e amici o nelle strutture organizzate dalla Protezione Civile, e non sanno se e quando potranno tornare a casa. Sembra un incubo. In poche ora, la vita di migliaia di persone è stata messa sottosopra.
L’alluvione di maggio 2023 resterà nel ricordo di tutti i Romagnoli. Ora è una ferita aperta. Una ferita che lentamente si dovrà cicatrizzare. Per evitare che le ripercussioni psicologiche possano trasformarsi in “Traumi” è stato attivato, fin dalle prime ore dell’emergenza, un servizio di supporto psicologico, organizzato dalla Regione Emilia Romagna in accordo con la Protezione Civile, proprio per fornire assistenza alle persone colpite dall’alluvione. Una squadra di 123 professionisti provenienti dall’intera Emilia-Romagna, con specifiche competenze nella gestione dell’emergenza, sono a disposizione di tutti coloro che ne hanno avuto bisogno: persone nei centri di accoglienza, volontari e semplici cittadini.

La dott.ssa Claudia Filipetta fa parte di Psicologi per i Popoli Emilia- Romagna (http://www.psicologiperipopoli.it/), associazione di volontariato costituita nel 1999 proprio per intervenire in situazioni di emergenza in ambito nazionale ed internazionale, e assieme ad altri colleghi è attiva dalle prime ore dell’alluvione. Con lei, operativa in queste settimane a Solarolo e a Forlì, abbiamo cercato di capire le emozioni e i pensieri spiacevoli che un evento catastrofico come l’alluvione può scatenare e quali siano le possibili strategie da mettere in atto per superarle.
“L’alluvione è un evento capace di provocare uno stress psicologico duraturo nel tempo: l’imprevedibilità e la repentinità di questo evento fa sì che venga iscritto tra quelli potenzialmente traumatici – spiega la psicologa -. Le reazioni di ciascuna persona possono essere differenti: si possono sperimentare emozioni di paura, rabbia, senso di colpa e tristezza. Ma anche vergogna, disorientamento, ansia. Possono riaffiorare ricordi o flashback, immagini dell’evento che si accompagnano ad un forte senso di disagio. Dopo un evento come questo si possono avere difficoltà a dormire, incubi notturni, inappetenza ma anche un apparente distacco dall’evento”.
Filipetta evidenzia che “è importante sottolineare come queste emozioni siano normali, di fronte ad una situazione che ha caratteristiche straordinarie e che ha sconvolto in maniera determinante la vita delle persone”.
E proprio per evitare che questo impatto stressante possa trasformarsi in trauma, gli psicologi dell’emergenza intervengono seguendo “I criteri di massima sugli interventi psicosociali nelle catastrofi” e le linee guida internazionali IASC che fanno leva su fattori di adattamento delle persone e delle comunità. “Si opera su piccoli gruppi di popolazione, ma anche con i soccorritori o i membri delle amministrazioni locali. L’obiettivo primario in questi casi è stimolare i fattori di resilienza e di coping per sostenere la ripresa e il ripristino della normalità. Ovviamente parliamo di “una normalità” che non sarà la stessa di prima dell’impatto, ma una normalità nuova. È essenziale che l’evento calamitoso venga integrato e non negato. Quindi è importante che sia accolto e condiviso”.
“Infatti una delle cose che suggeriamo è quella di non isolarsi, ma di mantenere attive le reti sociali, personali e familiari – prosegue -. Consigliamo, per quanto possibile, di ripristinare i ritmi, le abitudini quotidiane, la cura di sé, cercando anche di riposare”.
La psicologa sottolinea che “in queste situazioni di emergenza è importante intervenire in primis sulle fasce fragili, come i minori, gli anziani, i disabili per evitare che sviluppino situazioni patologiche, con effetti più forti e più duraturi nella psiche e rilevabili solo a distanza di settimane o mesi dall’evento. In questo senso noi lavoriamo proprio intervenendo a livello preventivo”.
Filipetta assicura: “Quando si verificano eventi disastrosi come alluvioni, terremoti, ecc.., le persone reagiscono con processi adattativi (coping e resilienza) e mettono in campo risorse personali e collettive che non avevano immaginato di avere “.
Il supporto degli psicologi dell’emergenza si basa sulle linee guida che seguono protocolli internazionali, secondo le direttive dell’Inter-Agency Standing Committee (IASC): “È importante operare con un approccio psicosociale, per ripristinare il benessere delle comunità e dei gruppi. Quindi non usiamo un approccio clinico, come quello che si usa in studio, ma lavoriamo sui gruppi e sulla popolazione. Gruppi omogenei, come genitori, insegnanti, amministratori o soccorritori, e con loro ripercorriamo le emozioni, i pensieri e l’evento dando indicazioni psicoeducative su come superare questo momento”.
Filipetta spiega: “In psicologia dell’emergenza si distinguono diversi tipi di vittime: c’è la vittima di primo tipo, cioè chi subisce direttamente l’impatto; ci sono le vittime di secondo tipo come i soccorritori, che rischiano di sperimentare il cosiddetto trauma vicario. Poi ci sono le vittime di terzo tipo, persone che per fragilità psicologica pregressa possono sviluppare dei disturbi psicologici, anche solo venendo a conoscenza dell’evento. Proprio per questo, noi suggeriamo, ad esempio, di proteggere sé stessi e i minori da ripetuti racconti particolarmente drammatici o da un’eccessiva esposizione ai mass media”.
La psicologa conclude: “È importante condividere la propria esperienza e non negare o reprimere le emozioni, i pensieri e il vissuto. Inoltre, bisogna tener presente che non c’è un tempo stabilito per elaborare questi momenti critici. Ognuno ha il proprio tempo personale”.

Diego Coelli

In soccorso dei profughi dall’Ucraina
Psicologi per i Popoli – Trentino per Emergenza Ucraina,
13 marzo 2022

Riassunto

Riportiamo in questo articolo di carattere discorsivo, la lezione che l’autore ha svolto per gli psicologi dell’Associazione Psicologi per i Popoli-Trentino chiamati all’accoglienza e al supporto dei profughi dalla guerra in Ucraina
Parole chiave: guerra, psicologia dell’emergenza, psicotraumatologia.

Abstract

We report in this discursive article, the lecture that the author gave to the psychologists of the Associazione Psicologi per i Popoli-Trentino called to welcome and support refugees from the war in Ukraine
Key words: war, emergency psychology, psychotraumatology.

Psicologia dell’emergenza, psicotraumatologia e guerra

Il rapporto è strettissimo: la psicologia dell’emergenza è nata in relazione alle riflessioni che sono frutto delle osservazioni rispetto ai comportamenti “disadattivi” che la guerra suscitava nei combattenti.
Le prime osservazioni furono fatte durante la guerra civile americana (1861-1865). Si parlò allora dei fenomeni, che poi avremmo definito traumatici, come di “cuore del soldato” Ci fu il primo medico, Da Costa, che li descrisse. Da qui “La sindrome di Da Costa” (Franchini A.F., 2007)
Nella guerra russo-giapponese (1904-1905), nella quale si ebbero massacri terribili, si inviavano gli psichiatri in prima linea per sostenere le truppe senza allontanarle dal luogo di combattimento. Paradossalmente, emerge qui uno dei principi della psicologia dell’emergenza, cioè il recarsi nel luogo dell’emergenza, il creare il setting là dove l’emergenza si verifica.
Nel corso della prima guerra mondiale (1914-1918) nasce la psicopatologia militare. In particolare viene identificato lo “Shell shock”, ossia lo “shock da granata”, da bombardamento (Bonomi C. Borgogno F. 2002) . Si pensava che le onde d’urto delle bombe creassero, raggiungendo il cervello, convulsioni al sistema nervoso che causavano i sintomi: tremore diffuso, panico, perdita del controllo di sé, fuga, gesti meccanici e ripetitivi, incubi. In un primo tempo si parlava di vigliaccheria, di forme di simulazione per non affrontare il combattimento, in seguito si ripiegò sulla individuazione di una sindrome organica. Solo alla fine della guerra si ipotizzò la componente psicologica: e qui si opera il primo stretto collegamento con la psicologia dell’emergenza.
T. W. Salmon (1876-1927) , medico psichiatra americano, nel 1917 fu nominato capo del servizio neurologico e psichiatrico dell’esercito degli Stati Uniti in Francia. Egli osserva l’attività degli psichiatri inglesi e francesi. I primi aspettano di curare i soldati sotto choc nel momento in cui vengono inviati nelle retrovie, addirittura nelle cliniche londinesi. I francesi invece li curano vicino al fronte. Salmon, imitando i francesi, istituisce il primo ospedale psichiatrico da campo ed elabora quelli che sono i 4 principi conosciuti nell’acronimo “PIES”, ancor oggi fondamentali in psicologia dell’emergenza:

  • Proximity. Questo significa intervenire dove è avvenuto l’evento, non isolare l’individuo dal suo contesto perché ciò aumenta l’effetto traumatico.
  • Immediately. Si tratta di intervenire il prima possibile, prima che l’esperienza traumatica, ed il giudizio svalutativo di sé stesso, basato sul senso di impotenza e inefficacia, si cristallizzi.
  • Expectancy. Si tratta di istruire le persone rispetto al fatto che ciò che succede a loro è una reazione che ci si attende rispetto al contesto in cui sono chiamati ad operare: essi non sono malati, deboli, fragili, non devono sentirsi tali, torneranno a sentirsi normali. Di qui l’importanza della stimolazione di un ruolo attivo, volta al mantenimento del senso di auto efficacia, dell’autostima. La attivazione è potenzialmente protettiva.
  • Simplicity. Si tratta di svolgere interventi semplici e diretti, non complessi e sviluppare le cosiddette “azioni parlanti”.

Nel 1920 nasce a Londra la Tavistock Clinic, con l’intento di curare i traumi da guerra. In essa lavorarono tra gli altri Anna Freud, Melania Klein, Wilfred Bion.
Durante la 2ª guerra mondiale si va ridefinendo la natura del trauma. È opportuno ricordare qui il grande psicoanalista inglese, peraltro nato e vissuto in India nei primi sette anni di vita, W.R.Bion. La sua autobiografia è dedicata in larga parte al ricordo delle esperienze fatte sul fronte francese nel corso della prima guerra mondiale. In quest’opera egli afferma che solo intorno ai cinquant’anni riuscì a superare gli effetti negativi della sua partecipazione alla guerra. Nel corso della seconda guerra mondiale gli viene affidato il compito di occuparsi degli ufficiali vittime del trauma da combattimento. Poiché i pazienti sono decine e decine, egli propone ed esperimenta la costruzione del “setting di gruppo”. Da questa esperienza nasceranno le sue teorizzazioni sulle dinamiche di gruppo che sono fondative di tutte le future esperienze del gruppo come setting terapeutico.
Con la guerra del Vietnam (1° novembre 1965 – 30 aprile 1975), risultano evidenti le problematiche psicologiche dei soldati che hanno partecipato al conflitto e che si organizzano in associazioni di reduci per reclamare attenzione e cura rispetto ad una patologia che era conosciuta ma non ancora definita a specifici fini di presa in cura dal servizio sanitario . Nacque così il Post Traumatic Stress Disorder che trovò il primo riconoscimento nel 1980 nel DSM-III.
Nel 1983 ad opera di J.T.Mitchell nasce il “The critical incident stress debriefing” Una tecnica innovativa descritta nel Journal of Medical Emergency Services”

La guerra come emergenza

Poiché stiamo parlando di guerra, ricordiamo che essa, come gli attentati terroristici, come gli omicidi, le violenze fisiche, gli abusi sessuali rappresenta l’esperienza che, dal punto di vista psicologico, ha molte più conseguenze, perché in queste situazioni ci si trova ad avere a che fare con la volontà di male, la volontà di infliggere morte, distruzioni e sofferenze da parte di esseri umani ad altri esseri umani. Diverse, da questo punto di vista, sono le emergenze naturali (inondazioni, terremoti, eruzioni vulcaniche, tsunami, incendi, cicloni, valanghe, ecc.), e le emergenze per incidenti di matrice umana: esplosioni di gas, incidenti in centrali atomiche, industrie chimiche, maxi incidenti automobilistici, ecc.

  • La guerra in genere è collocata nel passato, o in un altrove (ultimamente, Siria, Afganistan). La guerra in Ucraina ci è molto vicina, siamo sottoposti a un vero e proprio bombardamento emotivo; possiamo constatare ancora una volta la capacità dei media di orientare potentemente le emozioni e il pensiero collettivo. D’altra parte abbiamo bisogno di difenderci (istinto di sopravvivenza), distanziarci dall’angoscia, dall’orrore, da tutto ciò che è impensabile nella guerra, perché non fa parte della nostra vita vissuta. Eppure oggi siamo chiamati ad avere, su questo orrore assoluto, che nasce dalla percezione della distruttività totale, un pensiero. Abbiamo dunque anche bisogno di parlare, parlarne, di avere degli interlocutori, come i familiari, gli amici, soprattutto un gruppo.
  • La guerra è spettacolarizzata: siamo invasi dalle immagini, perciò scatta la identificazione con il dolore altrui, che però non è prodotta da un incontro reale. Non sentiamo sul campo di battaglia il suono delle sirene, il rumore assordante delle bombe, le urla dei feriti, non vediamo lo sguardo dei morenti, lo strazio dei cadaveri. Manca l’incontro reale con la guerra e con l’altro nella situazione di guerra.
Profughi di guerra.

Nel nostro caso siamo a contatto con profughi di guerra, che possiamo distinguere in persone che sono fuggiti prima che nei loro luoghi di residenza si scatenasse la guerra, o persone che sono fuggite in seguito, dopo aver avuto esperienza diretta della guerra. In quest’ultimo caso possiamo avere di fronte persone attraversate dalla paura, dall’angoscia, dall’orrore, dall’odio, che sono entrati in contatto vivo con la distruzione, con la morte altrui o con la possibilità della morte propria. Dunque si sono confrontate con l’intenzione malevola, la volontà di infliggere il male che anima noi esseri umani.
Qui si pone da subito la questione della gravità dell’evento emergenziale: essa è relativa alla distanza rispetto all’evento; alla frequenza dell’evento (pensiamo ai bombardamenti); al contesto in cui l’evento è avvenuto (in una situazione di vita normale, ad esempio, non sempre entrambi i genitori sono a casa).
Tutto questo significa portare con sé una serie di caratteristiche che cerchiamo di evidenziare in questo modo:

  • Condizione di spaesamento psichico totale di chi non si sarebbe aspettato di trovarsi in guerra;
  • Perdita, abbandono, distruzione della casa, della abitazione, che sono i referenti simbolici del proprio progetto di vita, ed anche, se vogliamo, della propria interiorità, della propria psiche.
  • Sradicamento territoriale con perdita di tutti i propri punti di riferimento: casa, ma anche negozi, uffici, scuole e ospedali, luoghi di divertimento ecc.
  • Perdita del proprio contesto sociale e relazionale.
  • Perdita dell’assetto familiare; sappiamo che fuggono dall’Ucraina specialmente le donne e bambini, mentre gli uomini rimangono a fare la guerra. Ma la struttura familiare, il nucleo familiare è il più potente sistema di sicurezza psichica. Ne conseguono sensi di colpa per chi è espatriato nei confronti di chi resta; sensi di colpa per padri e mariti che abbandonano al confine le proprie famiglie.
  • Ovviamente perdita del lavoro, del futuro , situazione di incertezza totale.
  • Presenza massiccia dei bambini, necessità di tutelarli e difenderli. Essi rappresentano in ogni società il futuro, il progetto personale, familiare, sociale, ma anche simbolicamente quel sentirsi inermi che ogni essere umano sente nel profondo di sé rispetto al male della vita.
  • I profughi possono spesso avere già situazioni pregresse critiche: problemi fisici, dinamiche psicologiche familiari… Tutto ciò può intensificare la situazione di disagio.
  • Può anche accadere che una volta giunti al sicuro si sentano in colpa per essere di peso, per non essere di aiuto a coloro che li ospitano all’arrivo
  • Dobbiamo tener presente che possiamo come, nel tempo dell’intervento telefonico in fase covid, avere a che fare con persone che non si sono mai avvicinate al mondo interiore psicologico, al linguaggio delle emozioni, per cui trovano difficile o impossibile esprimere sentimenti.
Sintesi

La guerra è il trauma per eccellenza; il termine trauma, come altri termini che hanno la stessa radice: “tradurre, tradire, trasformare, trapassare” implica come è evidente il passaggio repentino da una condizione ad un’ altra, da un assetto ad un altro completamente diverso.
Il trauma è stato definito come “una ferita dei significati”. Infatti i propri assunti sul mondo, che implicano la presenza di un significato, la prevedibilità di ciò che quotidianamente ci accade, vengono meno. Si interrompe il sistema di senso che ogni individuo elabora sul mondo; viene meno ogni progetto esistenziale e viene meno anche l’idea stessa di progetto: se ne sperimenta la vulnerabilità. La realtà perde ogni significato: e ciò è l’equivalente del morire.
“ L’insieme delle spiegazioni, quindi il sapere, è una specie di apparato protettivo che consente all’uomo di entrare nel mondo senza troppa ansia e inquietudine. Il mondo dischiuso dall’esistenza infatti non è 1 mondo di pura familiarità… Ogni cosa dimora avvolta da 1 alone di ambiguità, e improvvisamente può mostrare 1 altra faccia rispetto a quella consueta… La scienza e il modo scientifico di accertare le cose hanno diminuito la loro potenza ostile, la loro carica aggressiva e inquietante, ma senza sopprimerla. L’emozione che irrompe improvvisa è lì a dimostrare che l’armonia con il mondo non è mai così salda e definitiva; che l’imprevisto, l’inatteso, l’inquietante sono sempre in agguato, pronti a sconvolgere la presenza appena esorcizzata; che il cosmo ha la durata di 1 giorno perché ancora non ha definitivamente rotto i legami con il caos che lo sottende e lo nutre”. (Umberto Galimberti, Il libro delle emozioni p. 76)

Conseguenze

Ne consegue, sia sul piano individuale sia su quello collettivo, 1 scenario di emozioni diverse, confuse, violente, capaci di sopraffare; la possibilità di forti regressioni psichiche; la ricerca e l’ attribuzione caotica di significati, la ricerca disperata di rassicurazioni. Dunque uno scenario complessivo di acuta sofferenza psichica che può, ma non è necessario abbia, come conseguenza il PTSD (peraltro statisticamente presente nel 5/7 % delle persone che subiscono un evento emergenziale potenzialmente traumatico).

E noi?

Noi non possiamo annullare il dolore delle persone, ma solo prendercene cura. Ora, tutti abbiamo il bisogno di amare/essere amati; curare/essere curati; talvolta però le persone non sono in contatto con questi bisogni profondi e universali, perciò ci sono individui che hanno a volte difficoltà a ricevere cura e aiuto. Noi non possiamo e non sappiamo rispondere alle domande esplicite o implicite sul senso di questo immenso dolore e sofferenza, ma possiamo accogliere queste domande, dare loro corrispondenza, farle nostre assieme a chi ce le pone.
In che modo prendersi cura delle persone?
Si tratta di lavorare su più piani: da un lato si tratta di aiutare a gestire pensieri ed emozioni, facilitandone l’espressione, la rappresentazione e dunque il contenimento. Il narrare, il raccontare è un modo di pensare, un modo per uscire dalla confusione, per organizzare il caos del proprio vissuto.
Qui la situazione è però delicata: non si può costringere nessuno a riferire la propria esperienza, pena la possibilità di ri-traumatizzarsi; parla e narra chi desidera farlo. Su di un altro piano si tratta di aiutare a intraprendere azioni: che cosa può fare una persona? Come ridarle un senso di attività, di efficacia di partecipazione che sono fondamentali per evitare le conseguenze più traumatiche di un evento emergenziale?
C’è infine il piano delle relazioni, che noi dobbiamo aiutare a ripristinare: la persona è sola? Con chi è in contatto? Con chi può comunicare? Con chi la possiamo mettere in rete?

Monitorare sé stessi

Entriamo dunque in contatto con persone che possono essere molto provate e che di conseguenza possono molto metterci alla prova.
Di qui la necessità di monitorare sé stessi e di fare sempre riferimento al gruppo.

  • Si tratta in primo luogo di fare i conti con i propri sentimenti di impotenza, inadeguatezza, incapacità, colpa. Potremmo ad esempio sentirci in colpa per essere vivi, per la possibilità di una vita tranquilla, di divertirci nel weekend eccetera.
  • Oppure elaborare una visione “eroica” nel nostro ruolo (attenzione a ciò che è proiettato in noi dagli altri sofferenti), o magari una visione “depressiva”: il dolore ci sovrasta, non riusciamo a contenerlo, è tutto inutile.
  • È importante ricordarsi di mantenere il ruolo di soccorritori: non possiamo instaurare rapporti di amicizia, perché noi rimaniamo qui, ma i profughi se ne vanno.
  • Attenzione anche ad uno stato di possibile esaltazione: mantenere l’attenzione anche rispetto al covid, non cadere nel diniego del pericolo.
  • Non trasformare la nostra angoscia inconscia in azione . Possiamo lavorare bene, aiutare, se siamo tranquilli freschi e riposati… Dunque ad esempio non sovraccaricarsi di turni… Ma soprattutto dobbiamo pensare, esercitare il pensiero rispetto a ciò che vediamo, sentiamo, facciamo:
  • Si tratta di saper ascoltare, di accogliere se c’è, il desiderio di comunicare qualcosa della propria dolorosa esperienza; si tratta di essere presenti, di rimanere, anche in silenzio, perché la sofferenza altrui ci importa, anche se magari non sappiamo cosa dire perché a volte non c’è nulla da dire.
  • È possibile anche che ci capiti una situazione in cui una persona evacua il suo dolore che rimane però inalterato perché non è elaborato…

Il paradosso. Come psicologi dell’emergenza noi viviamo un paradosso: in una emergenza noi siamo “competenti” per quanto riguarda il dolore psichico; a noi esso viene affidato. Spesso le persone preferiscono allontanarsi dal dolore, semplicemente per il fatto che esso fa paura, temono di esserne colpiti, poiché ogni dolore richiama la morte. Ma le persone temono anche le interrogazioni che il dolore ci pone, e che riguardano i limiti della nostra esistenza, la nostra fragilità la nostra vulnerabilità. Noi, in un certo senso da questo punto di vista, siamo delle figure tecniche che in realtà non dovrebbero esistere. Ma qui il discorso si amplia, perché rinvia a come l’esperienza del dolore nella società contemporanea sia trasformata e allontanata dall’individuo anche attraverso il frazionamento del dolore stesso: basta entrare in un ospedale e vediamo decine di specializzazioni per quanto riguarda il dolore fisico; basta aprire il CSM per vedere le decine di specializzazioni che riguardano il dolore psichico…

Qualche riflessione sul dolore
  • Il dolore, che sia fisico o psichico, comporta sempre una riduzione in noi dell’elemento vita, fino al rischio più alto che è la morte. Anzi il dolore rappresenta esattamente la morte e la sua possibilità entro la nostra vita. Ci ammaliamo e soffriamo semplicemente perché siamo mortali.
  • Il dolore si conosce solo per esperienza: ci può essere raccontato, possiamo provare empatia, ma solo il viverlo ci dà piena conoscenza di esso.
  • Esso impone come abbiamo visto rispetto al tema del trauma, una discontinuità tra un prima e un dopo; rompe il ritmo naturale della nostra esistenza; e nel contempo è anche una esperienza conoscitiva, in un certo senso è un “aumento di conoscenza” perché getta una nuova luce sul mondo. L’esperienza del dolore può modificare profondamente il significato che attribuiamo alla vita.
  • Il dolore è una esperienza strettamente personale. Ognuno ha il proprio dolore, che non può essere il dolore vissuto da altri. Il dolore è sempre diverso; pensiamo alle situazioni nelle quali interveniamo in emergenza: il dolore di chi perde il partner, è diverso al maschile o al femminile; è diverso dal dolore dei figli; in questi ultimi è diverso per i vari livelli di età; e così è diverso per quanto riguarda i familiari, nonni, zii, oppure amici, colleghi di lavoro, vicini… Teniamo presente che in emergenza siamo a contatto con tutte queste diversità.
  • Attraverso l’esperienza del dolore noi facciamo in modo radicale una potente esperienza della nostra individualità, proprio perché essa è messa in pericolo. L’orizzonte finale del dolore, di qualsiasi tipo, non dimentichiamolo, è la morte.
  • Il dolore crea una asimmetria tra sé e gli altri, separa, crea un confine. L’individuo viene assediato, accerchiato dal dolore. Il proprio dolore è sempre indicibile, annulla la possibilità di comunicazione in prima istanza. La reazione primordiale al dolore è il silenzio, l’isolamento, o il grido, che ci avverte che la persona soffre, ma non è comunicazione del dolore. Le parole di consolazione ci appaiono vane, inutili, inefficaci, talvolta offensive proprio perché il dolore è individuale , personale, e perché è una esperienza inaccettabile che nessuna parola può lenire.
  • Il dolore però è universale. Chi vi assiste non lo sperimenta, ma lo riconosce, cerca di farlo proprio, sia attraverso l’empatia, sia nella possibilità che esso tocchi un giorno anche noi. Ed è proprio la sua universalità che apre le porte alla comunicazione, al rapporto tra chi soffre e chi assiste alla sofferenza altrui. Qui si apre lo spazio a una mediazione.
  • Chi soffre vive due spinte contrapposte: da una parte l’indicibilità, la specificità del proprio dolore che blocca la comunicazione; dall’altra invece l’esigenza di dire, spiegare, esprimere, mettere a parte qualcuno della propria sofferenza.
  • Chi assiste a una esperienza di dolore vive anch’egli due spinte contrapposte: da una parte c’è il naturale istinto di respingere il dolore: esso non è mio, e questo in profondità mi tranquillizza; dall’altra la spinta opposta, il dolore potrebbe essere mio, e qui nasce l’empatia. In quest’ultimo caso abbiamo anche a che fare con il senso di colpa, per il fatto che non siamo direttamente implicati nella tragedia.
  • In ogni caso il dolore ci mette alla prova perché ci interroga sul senso dell’esistenza e della nostra esistenza, proprio perché ci fa capire quanto è precario quello che si ha e quello che si è.
La resilienza

Sappiamo che gli individui reagiscono in maniera diversa alle emergenze. Da cosa dipende dunque l’impatto del dolore sull’individuo? Da cosa dipende la possibilità che esso venga espresso o meno?
Qui entrano in gioco molte variabili:

  • È molto importante la reazione dell’ambiente alla crisi dell’individuo, alla sua situazione di sofferenza; si può affermare che il destino della crisi in buona parte è determinato dal tipo di risposta che suscita (Ernesto de Martino)
  • L’ambiente sociale e culturale fornisce delle modalità, dei codici attraverso cui il dolore è vissuto, e quindi prende senso, ed è espresso.
  • Sistema di attaccamento; – esperienze relazionali positive, a partire da quelle fondamentali dell’infanzia (sicurezza e fiducia ).
  • Presenza di precedenti esperienze di dolore attraverso le quali il soggetto si è creato una rappresentazione mentale ed un vissuto emotivo del dolore;
  • Quale è stato l’insegnamento esplicito in ambito familiare rispetto agli ostacoli, al dolore: affrontarlo, resistere, o neutralizzarlo, eliminarlo ecc.
  • Presenza o meno di una rete di riferimento;
  • Appartenenza a una rete sociale (gruppo sportivo, politico, di volontariato, religioso, presenza di amici ecc.)

Bonomi C. Borgogno F.(2001). La catastrofe e i suoi simboli. UTET, Milano Brunori P. Candolo G. Donà M. Risoldi M (2003). Traumi di guerra: un’esperienza psicoanalitica in Bosnia-Erzegovina. Manni. San Cesario di Lecce.

Franchini A. F. (2007) . Il cuore va alla guerra. In Medicina nei secoli-Arte e scienza 19/2,Journal of History of Medicine pag. 437-456

Gadamer H. G.(1994). Dove si nasconde la salute, Raffaello Cortina, Milano

Galimberti U. (1999). Psiche e tecne. Feltrinelli. Milano.

Galimberti U. (2021). Il libro delle emozioni. Feltrinelli. Milano

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Natoli S. (2016). L’esperienza del dolore, Feltrinelli. Milano.

Salmon T.W. (1876-1927) in https://en.wikipedia.org/wiki/ Thomas_William_Salmon

Luigi Ranzato

Cinque attenzioni psicologiche per gli operatori Caritas-Trento che accolgono nelle loro strutture i profughi dall’Ucraina
Trento, 21 aprile 2022

Riassunto

L’articolo riporta l’intervento che l’autore ha svolto verso i volontari Caritas della Diocesi di Trento in preparazione all’accoglienza dei profughi Ucraini. A fronte delle cinque caratteristiche della guerra moderna l’autore propone alla sensibilità dei volontari cinque specifiche attenzioni psicologiche a cui ispirare la loro opera di accoglienza.
Parole chiave: ri-ordine, normalità, piacere, ricostruzione, relazione.

Abstract

The article reports the author’s speech to the Caritas volunteers of the Diocese of Trento in preparation for the reception of Ukrainian refugees. Faced with the five characteristics of modern warfare, the author proposes five specific psychological caveats to the volunteers to inspire their welcoming work.
Key words: re-order, normality, pleasure, reconstruction, relationship.

Premessa

In questi giorni, in noi psicologi, risuonano come ammonimento le parole profetiche e provocatorie che un noto psicoanalista, James Hillman, aveva scritto nel suo volume “Un terribile amore per la guerra”, edito in italiano da Adelphi nel 2004.
Scriveva Hillman “La guerra è innanzitutto una sfida per la psicologia, forse la prima delle sfide a cui la psicologia deve rispondere, perché minaccia direttamente la vita, la mia – la vostra, nonché l’esistenza di tutti gli esseri viventi. La campana suona per te, e per tutti. Niente può sfuggire alla furia termonucleare e se il fuoco distruttore e le sue conseguenze sono inimmaginabili, non lo è la loro origine, la guerra… La guerra chiama in causa la psicologia anche perché la filosofia e la teologia, gli ambiti cui spetterebbe produrre pensieri forti per conto della nostra specie, hanno trascurato la prioritaria importanza della guerra. “Polemos, di tutte le cose è padre” disse Eraclito agli albori del pensiero occidentale, e Emmanuel Lévinas, nella fase attuale del pensiero occidentale, ha riformulato così la stessa idea: “… l’essere si rivela al pensiero filosofico come guerra”
Questa breve relazione ai volontari Caritas di Trento che accolgono nelle loro case e strutture i profughi vuole essere un piccolissimo segnale di pace di fronte a questa immane tragedia sulla quale continuiamo ad interrogarci.

Numero 30, 2024 35 Le cinque caratteristiche della guerra e le cinque attenzioni psicologiche nell’accoglienza ai profughi da parte dei volontari Caritas della Provincia Autonoma di Trento

Disordine vs. ri-ordine

Nel IX secolo la guerra, che i romani chiamavano “bellum” in riferimento alle squadre “ben ordinate” delle legioni che si affrontavano, si trasforma nel termine germanico di “wuerra”, guerra, espressione che etimologicamente rinvia a quel concetto di “disordine, di mischia, di scompiglio e di zuffa” che aveva caratterizzato le invasioni barbariche nella distruzione dell’impero romano. Le immagini che in queste settimane la televisione ci invia dalla guerra in Ucraina è quella di un grande disordine prodotto dalla distruzione di città e villaggi, di abitazioni e servizi pubblici, di mezzi di comunicazione e strade con ammasso di macerie, di mezzi militari sfasciati, di persone che corrono in affanno, alcune delle quali giungono dopo una lunga fuga anche in Italia e nel nostro territorio provinciale.
Una attenzione e sensibilità psicologica nell’accoglienza ai profughi ci suggerisce di offrire loro un’assistenza che nei modi, nei tempi, nelle strutture sia ispirata il più possibile alla riacquisizione di un ordinato ménage giornaliero e settimanale per: a) normalizzare i ritmi sonno-veglia quotidiani; b) riprendere i contatti con i parenti e compatrioti in Ucraina, in Italia, in Europa; c) riattivare per bambini e adolescenti la scolarità interrotta, le possibilità di gioco e amicizia e le conoscenza del nuovo ambiente. A volte la generosità e condivisione umana ed affettiva di chi accoglie potrebbe essere vissuta dai profughi come troppo incombente e disturbante e perciò va dosata nei tempi e modi più delicati e rispettosi.

Pazzia vs. normalità

Follia è la parola con cui papa Francesco ha definito la guerra in Ucraina dal balcone di S. Pietro. La pazzia ha a che fare con quel patire psicologico che può arrivare all’estremo dei traumi psichici, anche severi, per coloro che hanno subito ferite fisiche e psichiche personali, famigliari o dei compatrioti. Per fronteggiare il nostro patire psichico acuto tutti noi cerchiamo di difenderci attraverso varie modalità che denominiamo “meccanismi di difesa” e ci servono per rimuovere le paure, attribuire le colpe a noi stessi o agli altri, razionalizzare su come e perché ciò sia accaduto , aumentare o minimizzare o negare la gravità di ciò che è successo. I volontari che accolgono e assistono i profughi debbono essere consapevoli di questo vissuto psicologico di tipo difensivo e mantenere verso di essi un delicato rispetto, una giusta vicinanza e distanza e, nel caso di grave sofferenza, possono suggerire le opportunità di un aiuto medico e psicologico.

Disgusto vs. piacere

La guerra entra in maniera molto violenta nel corpo e nella mente delle persone attraverso i cinque sensi. La guerra è un attacco ai sensi: la vista che vede la distruzione, l’udito sente i colpi delle armi e i sibili delle pallottole, le grida e i pianti delle persone, l’olfatto che è sopraffatto da odori che era raro sentire, il gusto stesso e il tatto che sono messi a confronto con sensazioni nuove e spesso disgustose. Pensiamo a chi per settimane si rifugia e vive nelle metropolitane o negli scantinati, in gruppi numerosi, incontra morti insepolti, carogne di animali, mentre i servizi di raccolta rifiuti sono resi precari se non bloccati … Queste percezioni legate alla vista, ai rumori, odori, sentori, renderanno molto sensibili gli organi di senso e si possono trasformare nell’emozione, primaria, del disgusto. Questo deve suggerire a chi accoglie e assiste i profughi una attenzione specifica rispetto a questa particolare sensibilità che a che fare con la qualità degli ambienti e delle strutture di accoglienza.
Sarebbe anche utile che chi ha vissuto la guerra ed è fuggito potesse, un po’ alla volta, allenare i propri sensi, riprendere a respirare aria fresca sentire e gustare cose buone, vedere cose belle. Purtroppo la televisione riporta continuamente altre percezioni. Il Trentino per fortuna offre con i suoi paesaggi molte possibilità di bellezza anche per riabilitare i sensi.

Distruzione vs. ricostruzione

Molti secoli di lavoro sono stati spesi nelle città per costruire i monumenti storici, le cattedrali, i teatri, i palazzi , le ferrovie, le strade, i treni, i servizi, gli ospedali, le scuole, le fabbriche i supermercati. Molti anni per farsi una professione, un lavoro, un’ abitazione, un appartamento, per acquistare un’auto, per andare in vacanza. Quante energie e quanto tempo per far crescere e far studiare i figli. Quanto tempo per disinquinare l’ambiente naturale e quello agricolo, far rinascere le piantagioni e le foreste. L’esperienza di distruzione che fa la guerra, ha un effetto particolare sulla mente e incide profondamente sulla “percezione del tempo che hanno le persone”. Le persone colpite da una guerra, ma anche da un terremoto, una alluvione, un incendio, vivono l’dea e il desiderio che tutto rinasca come allora, meglio di allora, ma in breve e a volte brevissimo tempo. Il desiderio corre più veloce della realtà e dei tempi che ci vogliono per ricostruire.
Sappiamo che si tratta di una distorsione percettiva e più passa il tempo più ci si rende conto che non è possibile in così breve tempo ricostruire quello che è stato distrutto. Di conseguenza può allora subentrare il malcontento verso chi porta un aiuto. Ciò può rendere anche dissonante la relazione con le persone che fanno il soccorso, con i volontari che si danno da fare. Questa richiede da parte dei soccorritori molta pazienza e capacità di sopportare questo disallineamento percettivo. Che questo accada è normale. La psicologia dell’emergenza ha studiato come evolvono le emozioni e i pensieri di chi è colpito da una catastrofe: la prima fase dell’aiuto è accolta con entusiasmo, cresce la fiducia perché la vita è salva, aumenta l’energia che poi va lentamente a calare, si è delusi, ci si arrabbia e deprime fino ai primi segnali di una ricostruzione molto lenta e a volte assai lontana.

Distacco vs. relazione

La guerra distacca le persone dalla propria casa, dai famigliari, dai parenti, dagli amici, dal vicinato, dal proprio paese, dal paesaggio, dalla propria chiesa, dal proprio cielo. È una rottura psicologica molto importante perché richiama e rinvia a quella fase ed esperienza vitale importantissima che gli psicologi chiamano “attaccamento” del bambino alla propria madre nei primi anni di vita, che è destinato a riattivarsi lungo tutto l’arco della vita nei momenti di relazione con le persone e gli ambienti soprattutto quando c’è un pericolo, una perdita, un distacco, un lutto. Molto è condizionato dalla qualità degli attaccamenti nei primi anni di vita con la propria madre o il caregiver. Attaccamenti che possono presentarsi come sicuri, insicuri, (evitanti o oppositivi), disorganizzati.
Nei distacchi violenti dalle persone e dai luoghi dell’attaccamento che ogni guerra produce, possono ricrearsi quelle stesse sensazioni e risonanze psicologiche che si sono vissute da bambini. Quello che a me profugo viene offerto da chi mi aiuta: è qualcosa di sicuro? O è insicuro, o non è né l’uno né l’altro, oppure è disorganizzato?
La relazione con le persone profughe con cui stiamo in relazione, che incontriamo, accogliamo e con cui lavoriamo nelle emergenze richiedono da parte di noi volontari, conoscenza di noi stessi, della nostra storia, molta delicatezza, eventualmente anche un sostegno, un aiuto, una verifica. So per esperienza personale che a ciò la Caritas è particolarmente sensibile e attenta e saprà dare l’opportuna assistenza anche ai suoi volontari.
Ci sarebbe una sesta parola che definisce la Guerra: la MORTE e il LUTTO. È un ambito che la Caritas della Provincia di Trento presidia con grande esperienza , sensibilità e accuratezza.

Hillman J. (2004). Un terribile amore per la guerra. Adelphi. Milano

Norme per gli autori della rivista
“Psicologia dell’Emergenza e dell’Assistenza Umanitaria”

  1. La rivista “Psicologia dell’Emergenza e dell’Assistenza Umanitaria” è semestrale e prevede due uscite annue.
  2. Vengono considerati pubblicabili gli articoli che trattano temi connessi agli aspetti psicologici, sociali, antropologici, comunicativi, storici, organizzativi e legali di situazioni emergenziali. Situazioni quali: incidenti quotidiani disastri, catastrofi, conflitti armati; immigrazione, migrazione forzata e problematiche interculturali; lutto traumatico, resilienza, trauma. Sono anche pubblicabili articoli che esplorano gli stessi aspetti legati a fenomeni e processi quali: interventi di protezione civile, soccorso sanitario; cooperazione internazionale e difesa dei diritti umani; ricerca dispersi e scomparsi; prevenzione e cura della salute mentale in contesti emergenziali.
  3. rientrano tra le tipologie di articoli pubblicabili: a) ricerche; b) review; c) case history; d) documentazione di esperienze sul campo e best practice; e) contributi teorici; f) riflessioni e rielaborazioni metodologiche; g) recensioni.
  4. Gli articoli proposti per la pubblicazione dovranno pervenire in formato word o rtf agli indirizzi a) psicologixpopoli@alice.it e b) gabrieleloiacono@psicologia-editoria.eu.
  5. Gli autori avranno cura di fornire un indirizzo di posta elettronica e un recapito telefonico per le successive comunicazioni.
  6. Il percorso di valutazione per la pubblicazione prevede quattro passaggi:
    a) autovalutazione degli autori rispetto ai criteri di qualità forniti dal comitato scientifico (che devono essere utilizzati prima di proporre l’articolo alla rivista);
    b) prima valutazione: ogni proposta presentata per la pubblicazione è esaminata dalla direzione, per una revisione iniziale. Se l’articolo concorda con le politiche editoriali e con il livello minimo di qualità richiesto, è inviato a due revisori anonimi per la valutazione. Questa prima revisione interna con conseguente rifiuto o assegnazione della valutazione dei revisori;
    c) revisione: la rivista si avvale, per ogni proposta, di due revisori anonimi, sia italiani sia stranieri. Il processo di revisione intende fornire agli autori un parere competente sul loro articolo. La revisione dovrebbe offrire suggerimenti agli autori, se necessari, su come migliorare i loro contributi. A questa valutazione segue una comunicazione all’autore. Nel caso la proposta di pubblicazione sia accettata solo a condizioni di correzioni, modifiche o integrazioni, l’autore potrà ripresentare il lavoro, adeguatamente corretto;
    d) Ultima decisione editoriale: spetta alla direzione della rivista ed è comunicata dopo la ricezione delle modifiche.
  7. Gli autori verranno informati dell’esito di ogni passaggio, potendo ottenere, su richiesta e in relazione alla fase di lavorazione, attestazione di articolo “submitted”, “accepted” o “in press”.

Preparazione del manoscritto

  1. Riportare in prima pagina: autore, ente di appartenenza e titolo dell’articolo.
  2. Nella prima riga, a sinistra, si dovrà indicare il nome e il cognome dell’- autore per esteso in corsivo, seguiti da una virgola, l’ente di appartenenza e un a capo.
  3. Il titolo dell’articolo dovrà essere scritto in grassetto.
  4. L’articolo deve essere preceduto da un riassunto in italiano e in inglese di circa 200 parole e 5 parole chiave (in italiano e in inglese).
  5. La lunghezza massima di ciascun articolo deve essere compresa tra le 15 e le 20 cartelle (circa 8.000/12.000 parole).
  6. Usare carattere Times New Romans, corpo 12, interlinea singola, allineamento giustificato.
  7. Usare il tasto Enter (a capo) soltanto per cambiare paragrafo.
  8. Non usare comandi di sillabazione o comandi macro.
  9. Non usare doppi spazi per allineare o fare rientrare il testo.
  10. Usare i seguenti stili:
    1. titolo delle sezioni (paragrafi) principali: neretto
    2. titolo sottosezioni (sottoparagrafi): corsivo
    3. titolo sezioni di ordine inferiore: tondo
  11. Non sottolineare mai; per evidenziare parti di testo, utilizzare eventualmente il corsivo, non il neretto.
  12. Non numerare le sezioni.
  13. Negli elenchi, usare la seguente gerarchia: numeri seguiti da un punto: 1.; lettere con la parentesi chiusa: a); lineette medie: –
  14. Dopo i segni di punteggiatura, lasciare sempre uno spazio; non si devono invece mettere spazi prima dei segni di interpunzione (punti, virgole, due punti, punti esclamativi e di domanda), dopo la parentesi aperta e prima della parentesi chiusa.
  15. Nel citare i passi direttamente da un altro autore porre all’inizio e alla fine della citazione le virgolette aperte e chiuse “…” e, nel caso di omissioni all’interno di un brano, indicarle con […].
  16. Nelle citazioni di autori nel corpo del testo:
    1. se si cita un autore: subito dopo, tra parentesi, inserire l’anno, una virgola e l’eventuale indicazione della pagina;
    2. se si cita una teoria o una metodologia: subito dopo in parentesi inserire l’autore seguito da una virgola con l’indicazione dell’anno e, dopo una seconda virgola, eventualmente le pagine o l’indicazione del capitolo;
    3. se si citano più autori: in parentesi, dopo l’indicazione del cognome del primo autore mettere una virgola e i cognomi degli altri autori; prima dell’ultimo, usare la congiunzione “e” senza farla precedere dalla virgola; dopo il cognome dell’ultimo autore, inserire una virgola seguita dall’indicazione dell’anno e dopo un’altra virgola indicare la/e pagina/e preceduta da p. o pp.
  17. Per i riferimenti bibliografici interni al corpo del testo e la bibliografia finale, se gli autori citati sono più di tre, è preferibile indicare solo il cognome del primo e farlo seguire da et al.
  18. È preferibile usare “si veda” o “vedi” piuttosto che “cfr.” o “vd.”.
  19. Nel corpo del testo è da evitare l’uso indiscriminato o enfatico del maiuscolo e delle virgolette; eventualmente utilizzare il corsivo. È da evitare in ogni caso l’uso del sottolineato e del neretto.
  20. Inviare le figure in un file a parte e indicare nel testo dove inserirle.
  21. La bibliografia finale va riportata in ordine alfabetico e secondo quanto indicato nei seguenti esempi: Articolo su rivista: Castelletti P. (2006), La metafora della resilienza: dalla psicologia clinica alla psicologia dell’assistenza umanitaria e della cooperazione, “Nuove tendenze della psicologia”, 4(2), pp. 211-233. Libro: Sbattella F. (2009), Manuale di psicologia dell’emergenza, Franco Angeli, Milano. Capitolo all’interno di un libro: Grotberg E.H. (2001), The international resilience research project. In A.L. Communian e U. Gielen (a cura di), International perspectives on human development, Pabst Science Publishers, Miami, pp. 379-399.
  22. Le opere citate nel testo devono essere inserite nella bibliografia finale e la bibliografia finale dovrebbe contenere solo opere citate nel testo.

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