“Ma nessuna misura è sufficiente davanti alla ferocia del conflitto”

MASSIMILIANO DI CARLO Il presidente dell’associazione Psicologi per i popoli

“Ma nessuna misura è sufficiente davanti alla ferocia del conflitto”
L’INTERVISTA
DANILO CECCARELI

L’incubo del ritorno della guerra in Europa continua a togliere il sonno alle cancellerie del Vecchio continente, come dimostrano le misure preventive prese da alcuni Paesi contro la minaccia di un attacco russo. La Germania ha pronto un piano per adattarsi ad un contesto bellico, mentre nei Paesi scandinavi sono stati aggiornati gli opuscoli contenenti le indicazioni per i cittadini in caso di emergenza. Ma c’è una differenza tra “conoscenza” ed “esperienza”, come spiega Massimiliano Di Carlo, presidente dell’associazione del Lazio di “Psicologi per i popoli”, un’organizzazione nazionale specializzata nella psicologia dell’emergenza.

Dottor Di Carlo, quindi non è possibile preparare psico- logicamente la popolazione allo scoppio di un conflitto?

«La mia personale idea è che non esiste un modo specifico perché la guerra è un qualcosa di lontano dagli schemi nei
quali siamo abituati a vivere. Possiamo prepararci tecnica- mente, ma se non l’abbiamo mai vissuta non possiamo sa- pere cosa sia. E per quanto possiamo provare ad immagi- narlo, nulla ci può preparare al confronto con la ferocia della realtà».

Che conseguenze possono avere le misure preventive che hanno preso alcuni Paesi nel nord dell’Europa?

«Gia il fatto di prendere seriamente in considerazione la possibilità di una guerra crea un cambiamento nelle persone, perché si attivano delle aree cerebrali specifiche. Nel momento in cui si percepisce un senso di minaccia in un cli- ma che appare ancora relativamente sicuro si crea all’interno dell’organismo una sorta di ambivalenza. Da una parte ci si sente al sicuro perché ancora non si vede il pericolo, dall’altra si sa che c’è una minaccia a causa delle indicazioni che vengono date. Molto dipende da come l’emergenza viene comunicata».

Vivere in un simile stato di allerta che effetti ha sulla società?

«La tensione di per sé rappresenta uno stato di allerta e in un simile contesto si tende a proteggere la propria condizione. La paura crea diffidenza, che di certo non contribuisce alla coesione sociale. Dovremmo lavorare nella costruzione di certi comportamenti funzionali all’emergenza abituando i ragazzi a sostenere le emozioni».

E una volta che il proprio Paese entra in guerra, come successo all’Ucraina, cosa cambia nella psiche umana?

«Tutto. Si vive in una modalità di sopravvivenza, dove le energie non sono più orientate verso il benessere come succede in tempo di pace. La progettualità per una persona che vive in guerra è limitata all’arrivare a fine giornata o a mettere in salvo i propri cari. Per loro la programmazione del futuro perde senso».

Qual è l’impatto sui più giovani?

«Si va a rompere quel meccanismo in base al quale noi educhiamo i nostri figli allo sviluppo di una sicurezza interna volta alla costruzione di una personalità più o me- no stabile. Si spezzano delle certezze, tra cui quella dell’impegno nel costruirsi un futuro. A Gaza, dove ero nel 2023, pochi mesi prima dell’inizio della crisi, i giova- ni vedono nel loro futuro il martirio. Un ragazzo lì non ha l’ambizione di fare il medi- co o l’avvocato, perché sono mestieri che non hanno un valore sociale, a differenza di un sacrificio che rappresenta la resistenza all’oppressione. Parlare di disturbo post-traumatico da stress a Gaza non ha senso: lì si vive in un trauma costante».

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